A che punto è la democrazia in Italia? Di tanto in tanto bisogna domandarselo. Fare il punto della situazione, un tagliando insomma. Anche perché nella politica e nella società tutto sembra cambiare velocemente. Il vecchio che viene spazzato via per il nuovo. I nuovi termini, i nuovi atteggiamenti, i nuovi modi di comunicare, le nuove facce. Tutto questo per assemblare nuove leggi, nuovi percorsi, nuove opportunità. Ma stiamo cambiando davvero?
C’è bisogno di rinnovamento, e soprattutto di ripresa. Non solo nell’economia, ma anche nella mentalità del paese. C’è bisogno di coraggio e sapienza. Coraggio per cambiare ciò che sembra fossilizzato, sapienza perche c’è poco spazio di manovra per sbagliare ancora, e quindi bisogna cambiare, e bisogna farlo bene subito.
Eppure davanti a tutti cambiamenti promessi e minacciati, difronte a chi dice di voler sostituire ogni punto di riferimento precedente e di poterlo fare in poche mosse e in poco tempo, é li che mi vengono i primi dubbi.
Può esistere un cambiamento del Paese così repentino e facile? Bastava così poco, un po’ di decisionismo per rimettere le cose al loro posto? Il paese é davvero diviso in buoni e cattivi, virtuosi e parassiti, riformisti e gufi?
Probabilmente no. Allora che succede?
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Nello specifico, il parlamento e tutto il dibattito pubblico nel paese sta girando da tempo attorno alla riforma del Senato. Sedute notturne quotidiane fino a ferragosto, urla, risse, mancamenti, ricoveri in ospedale, proclami e scissioni. Sui giornali non si parla d’altro da settimane, le cronache parlamentari pullulano di precisazioni, nomi, schieramenti, scenari di ogni tipo ed indiscrezioni.
Tutto farebbe pensare che si tratti della madre di tutte le riforme. Della più importante, se viene affrontata per prima e con tale dispiego di energie.
Per chiarezza, nessuno pensa che non sia importante una riforma della Costituzione. Lo é, eccome. Appunto per questo, si da l’idea che fatta questa, il resto venga da se. Tolto quest’impiccio del Senato, l’Italia potrà tornare a veleggiare in acque sicure e con il vento in poppa.
Ma é così? Qual è lo scopo di questa riforma?
Risparmiare? Eliminare il bicameralismo perfetto che bloccherebbe il paese?
Chi ha a cuore la riforma risponde si a tutte e due le ipotesi.
Ma sono questi i risparmi che servono con immediatezza all’Italia per rilanciare gli investimenti? Certo che no. Sarebbero pur sempre risparmi, ma spicci davanti ad un conto salato da pagare. Ad un debito pubblico stratosferico che produce interessi sempre più difficili da onorare e ad una spesa pubblica corrente, smisuratamente maggiore in ordine di grandezza del pur alto costo della politica.
Allora la questione vera è la rimozione del bicameralismo perfetto e quindi dell’ingovernabilità? Se è così, come abbiamo fatto in quasi settant’anni a governare questo Paese? Eppure lo si è fatto affrontando momenti anche molto complicati per l’economia e la tenuta sociale degli italiani. Quindi perché adesso questo sistema non andrebbe più bene? Probabilmente con una legge elettorale moderna ed adeguata si può governare anche insieme al Senato. Un Senato più sobrio, controllato nelle spese e più efficiente.
Invece lo si vuole svuotare, in attesa di cancellarlo, perché considerato un doppione della Camera.
Ma Camera e Senato fanno parte di un’architettura solida e rodata, saldata insieme nella nostra Costituzione; asportarne un pezzo rischia di mettere a repentaglio la tenuta di tutta la struttura.
C’è da chiedersi come mai i padri costituenti avessero pensato al bicameralismo perfetto. Cosa ispirasse le loro mosse e cosa sia cambiato oggi da allora.
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Venivamo da vent’anni di autoritarismo, da una dittatura che ci ha portato ad una guerra ferale. Il fascismo di Mussolini attecchì in Italia con facilità perché le istituzioni liberali erano diventate immobili ed inerti. Il clima stagnante suggerì che ci fosse bisogno di una svolta autoritaria, decisionista. Arrivò il Fascismo. Dopo la guerra, i padri costituenti elaborarono con precisione chirurgica un sistema con i poteri estremamente calibrati fra loro, di modo che nessuno avrebbe potuto accumulare su di se troppe funzioni e favorire una nuova svolta autoritaria e personalistica.
Il sistema funzionò perché la nostra debole e giovane democrazia è passata per vari rischi totalitari, uscendone sempre indenne.
Oggi questo improvvisamente non va più bene. Il parlamento lavora poco, le leggi elettorali non portano alla governabilità. Questo è vero. Ma la soluzione proposta non convince affatto. Si vuole creare una nuova architettura dello Stato ti impostazione verticistica. La nuova legge elettorale unita alla riforma del Senato che propone il governo, porterebbe a creare uno sbarramento molto basso per il partito che vincesse le lezioni, che in nome di una fantomatica governabilità, acquisirebbe gli strumenti per controllare buona parte dei pesi e dei contrappesi dello Stato. Basterebbe il 20% del consenso popolare per controllare ogni cosa. Questo smonterebbe il senso primo dell’organicità della nostra Costituzione. Il senso più profondo con il quale è stata pensata e costruita.
Il rischio é già ora evidente ed è sotto gli occhi di tutti in questi mesi. Gli impulsi totalitari con cui vengono gestiti molti partiti personalistici non fa certo auspicare una svolta in tal senso. Epurazioni sommarie, cerchi magici, diaspore velenose, atti di forza stanno caratterizzando la svolta autoritaria in tutti gli schieramenti. Il discorso vale maggiormente per il presidente del consiglio: che annulla con una battuta, senza nemmeno un passaggio parlamentare o altro atto formale, la dissidenza interna (Fassina chi?), che rimuove in fretta e furia, chi si smarca dalla linea prestabilita, agendo nelle ridottissime stanze dei bottoni (rimozione di Mineo dalla commissione affari costituzionali), che liquida, con sprezzante superbia, chi non sposa in toto la missione del governo (Cottarelli, incaricato di trovare gli sprechi nella pubblica amministrazione è liquidato con una frase nel momento stesso in cui ha presentato il resoconto del suo lavoro, evidenziando delle criticità nelle scelte del governo. “La spending review la faremo anche senza di lui”), mostrando infine alcun rispetto o stima verso il gruppo parlamentare del suo partito (chi non vota sulle mie indicazioni è solo uno che ha paura di perdere la poltrona).
Questo atteggiamento sprezzante, feroce, anche se talvolta poggiato su una buona dose di ragione, basta per tenersi lontano da leggi e regole che ne istituzionalizzino la legittimità.
Perché il terreno su cui ci si muove, e questo non riguarda il governo soltanto, ma tutto il panorama parlamentare, è quello del bieco populismo. Frasette semplici, ancor meglio slogan efficaci, hashtag dal bel suono che sostituiscono la fatica di un dibattito, di una mediazione, di una scrittura lungimirante delle regole, rischiano di spazzare via quei pochi scampoli di buona politica che ci vengono dal passato. Dalle scuole politiche, dal ragionamento fra illuminati, e lasciano sul campo una battaglia ignobile a colpi di spot pubblicitari.
In questo clima, chi ha il claim migliore si porta a casa la maggioranza e governa lo Stato come crede, per anni.
E mentre il populismo dei giovani, bagnato di falsa meritocrazia, imperversa sulle scelte sempre troppo frettolose degli Italiani, che non vedono l’ora di affidarsi all’uomo di turno, i vincoli Europei, stabiliti sempre senza una presenza ed un controllo Italiano, ci soffocano. Al tavolo europeo, mentre noi mandiamo a trattare gli esclusi ed i trombati nelle elezioni italiane, proprio li si decidono i margini entro cui poi in Italia ci si deve muovere. Quanti soldi devono essere spesi e come. Quali aziende aiutare e in che misura. Quanto latte produrre, come fare il vino e che prezzo pagare l’energia, tutto passa dalla mediazione europea. Una politica lungimirante è lì che metterebbe gli uomini migliori, ma da Bruxelles non si controlla il territorio, gli appalti, lo spargimento di fondi pubblici. Non si ha, in poche parole, il potere marginale che rende il politico intoccabile.
Il rischio è che in Europa continuiamo ad avere compiti da svolgere e nulla da decidere. Ci verrà chiesto sempre più spesso di liquidare i pezzi migliori della nostra economia, e lo dovremo fare per rispettare i patti che abbiamo firmato.
Commissari liquidatori, attori in un teatrino per nulla comprensibile, attaccati a vezzi e vizi politici di piccolo cabotaggio. A rimorchio della riforma del Senato, mente fuori per strada la democrazia si liquefà sul lavoro che sparisce, sui cortocircuiti di una burocrazia asfissiante, di una giustizia lenta e quindi ingiusta, dove si barattano i diritti dei lavoratori per benefici futuri e improbabili.
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Se i conti vanno male e peggiorano sempre, il premier dice: cene faremo una ragione. Se qualcuno vuole una riforma diversa da quella proposta, quelli sono i Gufi. Tutto è ridotto ad una partita adolescenziale, a cui giocano tutti, perché la posta in palio è il consenso del paese. Partiti gestiti come aziende, in cerca di nuove fette di mercato da conquistare. Una sorta di guerra per bande su terreni casuali, lontani dalle esigenze del Paese, ma buoni per un braccio di ferro che stabilisca chi è il più forte.
Una politica dei coatti, che nulla ha a che vedere con quello che dovrebbe essere, cioè la sublimazione di ogni istanza culturale, storica, del Paese. La quintessenza del meglio che siamo capaci di costruire. Le migliori intelligenze prestate, pro tempore, alla comunità. Una sorta di servizio civile volontario.
Allora, tornando al principio, a che punto é la democrazia?
Al punto di prima. Nulla sembra essere cambiato negli ultimi 40 anni. Sembra solo un gattopardismo diffuso, che sta costruendo una nuova facciata, approfittando della delusione degli italiani. Sempre più cupi nella considerazione della cosa pubblica e dei suoi gestori, ma troppo pigri, nel voler far montare la propria indignazione.
Bisogna cambiare l’Italia, ma prima ancora gli Italiani. Iniziando dai politici.
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